L'hate speech, ossia le parole d'odio pubblicate in rete, sono un fenomeno frequente, in cui chiunque sia iscritto a una piattaforma social si è inevitabilmente imbattuto, almeno da spettatore.
Amnesty Italia ha condotto un laboratorio su questo fenomeno, in particolare quando rivolto alle donne, nella sede di Auser, all’interno del Festival al Femminile 2024. Dora Farina, relatrice dell’incontro, è la responsabile della task force "Hate speech" di Amnesty: un gruppo di sessanta attivisti che, da tutta Italia, si occupano di rispondere ai messaggi d’odio nei commenti dei post social dei quotidiani online. "Rispondiamo ai commenti, ma non sempre avviene un confronto, in alcuni casi, quando non vengono rispettate le regole della piattaforme, il commento viene segnalato. Le piattaforme social, infatti, hanno una propria policy: è come quando si infrangono le regole di una casa in cui si è ospiti e per questo si viene cacciati".
“I target principali sono donne, migranti, persone appartenenti alla comunità Lgbtqia+, ma si verificano anche discriminazioni religiose, politiche. Un movimento d'odio particolarmente recente, è quello nei confronti degli attivisti climatici", spiega Farina. La maggior parte degli utenti dei social sono “silenti”, ma rimangono comunque coinvolti da questi messaggi, quando ne leggono uno: “Ormai i social fanno parte della nostra realtà a tutti gli effetti e dovremo darci delle regole comuni per fruirne”.
Sono diversi i motivi che spingono una persona a scrivere commenti d'odio, spesso senza la consapevolezza che possano anche avere un rilevanza penale: "Per disinformazione o per uno scarico di responsabilità. A volte si attribuiscono a una determinata categoria delle colpe su tematiche sociali o comunitarie -conclude Farina- Molto spesso non si tiene conto del messaggio che si veicola e ci si lascia da un sentimento d'odio che ha un effetto non soltanto sulla persona con cui si interloquisce, ma su tutta la comunità".