Un Occhio sul Mondo - 07 dicembre 2024, 09:00

'E ora la Jihad ha il suo Stato'

Il punto di vista di Marcello Bellacicco

In merito a quanto sta succedendo in Siria, il Presidente USA “a termine” Biden ha prima esultato per la caduta del dittatore “Dopo 13 anni di guerra civile in Siria, oltre mezzo secolo di brutale controllo autoritario, il regime di Bashar al-Assad è caduto”, poi ha indicato gli intenti americani “Ci impegneremo con tutti i gruppi siriani, anche all'interno del processo guidato dalle Nazioni Unite, per stabilire una transizione dal regime di Assad verso una Siria indipendente e sovrana con una nuova costituzione” ed infine, in un momento di razionalità, ha affermato “Alcuni dei gruppi ribelli che hanno spodestato Assad hanno un triste curriculum di terrorismo e di violazioni dei diritti umani...valuteremo non solo le loro parole, ma anche le loro azioni”, confermando la condotta di alcune missioni di attacco a presunte basi dell'ISIS in territorio siriano, da parte di aerei USA.

Probabilmente, basterebbe leggere queste dichiarazioni, tra l'utopico ed il controverso, per rendersi conto della situazione che attualmente riguarda la Siria che, al momento, presenta le seguenti certezze.

La Siria sarebbe stata “liberata” da una specie di coalizione di gruppi, accomunati dal chiaro stampo jihadista, il cui nome è già tutto un programma “Organizzazione per la liberazione del Levante”. Ancora più significativo è il curriculum del suo leader.

I ribelli jihadisti (son bastati pochi giorni per sdoganare questo appellativo che sino a poco tempo fa ci avrebbe fatto inorridire) sono guidati da tale Abu Mohammed al-Jolani, uno pseudo sconosciuto che attualmente si definisce moderato, tanto da cominciare a proporsi al mondo con il suo vero nome Ahmad Huseyn al Shara, preferendolo a quello di battaglia. Ma non si può e non si deve scordare il suo passato, che lo vede come esule dalla famigerata organizzazione terroristica al Quaeda, della quale è stato il fondatore della cellula siriana e come simpatizzante dell'ISIS.

E' originario della Regione del Golan, area occupata da Israele già da molto tempo e da cui è dovuto fuggire, per cui le sue antipatie per Tel Aviv sono antiche e ben radicate. Fu arrestato in Iraq nel 2006, perché attivo combattente nella lotta anti americana e, una volta liberato, è tornato in Siria dove, in una lotta per il potere ed il controllo del nord della Siria, non ha avuto problemi a scontrarsi con altri gruppi fondamentalisti. Uscito vincitore da queste faide, diviene il “Signore di Idlib”, una delle principali città della Siria, guarda caso, in prossimità del confine con la Turchia, il cui leader lo pone sotto la sua ala protettrice.

E infatti, è proprio Erdogan che lo supporta nella conquista di tutta la Siria, contribuendo a creare una situazione il cui prezzo, tanto per cambiare, probabilmente lo pagheranno altri (compresi noi). La Siria era nei suoi pensieri prioritari già nel 2012, come dimostra chiaramente la sua allegorica affermazione di quel tempo di voler arrivare a pregare nella Moschea omayyadi di Damasco, il principale luogo di culto della Capitale. Ora, a distanza di 12 anni, pur se per interposta persona, sembra esserci arrivato, visto che Abu Mohammed al-Jolani, nella sua marcia trionfale e inarrestabile verso Damasco, ha usufruito del pieno supporto di Ankara.

Ma c'è da chiedersi il motivo per cui il Rais turco si è mosso in questa maniera, dopo che solo pochi mesi fa, aveva invocato l'unità dell'Islam, contro la minaccia israeliana, chiedendo di adottare adeguate misure per fermare le operazioni di Tel Aviv, contro Gaza e Libano, a Iran, Russia e la stessa Siria, i tre protagonisti che ora vengono considerati gli sconfitti dalla caduta del leader siriano Assad.

Gran parte degli analisti si sono affannati ad indicare nella voglia di assumere potere ed influenza nella Regione le motivazioni che hanno portato Erdogan a svolgere il ruolo di regista dell'abbattimento del regime di Assad. Indubbiamente, può anche essere una buona motivazione accademica, ma che di sicuro non soddisfa quella natura di razionalità, concretezza ed opportunismo che caratterizza ogni atto del leader turco. Per lui si può dire che anche nelle più sofisticate strategie di politica internazionale, i cosiddetti “conti della serva” devono sempre tornare, per cui quali possono essere gli aspetti di puro pragmatismo che lo hanno indotto a tale approccio? Sostanzialmente possono essere due. Il primo riguarda gli oltre 3 milioni di profughi che la Turchia ha sinora ospitato e che hanno già iniziato a rientrare in Siria. Un problema non da poco, sia sotto l'aspetto finanziario che quello della sicurezza, che viene risolto. Il secondo, non da meno, ma in un'ottica di medio termine, riguarda invece i Curdi, che occupano la parte nord orientale della Siria, a ridosso del confine turco.

Come noto, il movimento curdo PKK è uno dei peggiori incubi per Recep Erdogan, che trova ancora maggiori preoccupazioni all'idea che possa unirsi all'YPG, il movimento separatista curdo siriano, il cui intento è quello di creare uno stato autonomo nelle aree attualmente occupate. Tale ipotesi spinse nel 2016 la Turchia ad invadere la Siria ed occupare una fascia di sicurezza che isolasse i due movimenti. Ora, immediatamente dopo la caduta di Damasco, il leader turco ha chiarito subito al suo protetto Mohammed al-Jolani che non deve esistere alcuna ipotesi di indipendenza dei Curdi. E questi, giusto per dimostrare la sua riconoscenza, ha già condotto un attacco contro le forze curde nella città di Manbij, nonostante le stesse facessero parte, sino a poche ore prima, della coalizione di liberazione della Siria. Quindi, si può dire che, per ora, Erdogan ha i suoi “proxi” anti-Curdi in Siria. Quanto durerà non lo si può prevedere e di questo Erdogan ne è consapevole, ma probabilmente gli basta che l'YPG venga indebolito e, magari, perda territorio.

Pertanto, se si può dire che la Turchia i suoi obiettivi li ha più o meno ottenuti o è sulla buona strada per ottenerli, non è possibile dire altrettanto per gli altri attori coinvolti o interessati nell'area.

Primo tra tutti Israele che, secondo quanto riportato dal Jerusalem Post, stava addirittura rivalutando la convenienza di avere un Assad fortemente indebolito alla guida del Paese, piuttosto che altre soluzioni che costituivano un incognita. L'incredibile avanzata delle formazioni jihaidiste di Mohammed al-Jolani è stata molto probabilmente la soluzione più sgradevole per Tel Aviv, che ora si ritrova con un “non Stato” confinante, tradizionalmente nemico, che potrebbe diventare un Paese guidato da un leader Jihadista, ex affiliato di al Quaeda e che le prime congratulazioni per il suo successo le ha ricevute dai Talebani dell'Afghanistan.

Uno scenario inquietante per Tel Aviv, che va a complicare ulteriormente una situazione già delicata, che presuppone un fronte libanese, uno con Hamas e uno con l'Iran. Un ulteriore fronte siriano non era di certo previsto e, per quanto ancora a livello potenziale, ha già indotto Israele ad alcune azioni militari preventive, con missioni aeree su obiettivi ritenuti i laboratori dove si prepara il munizionamento chimico e con l'avanzamento in territorio siriano delle postazioni sul Golan, con l'occupazione di alcune basi abbandonate dall'esercito siriano. Non succedeva dai tempi della guerra arabo-israeliana del 1973.

Tutto questo in attesa di assistere all'evoluzione degli eventi che, se non dovesse essere favorevole, troverebbe Israele pronto e preparato per un'eventuale "risposta difensiva molto, molto forte", come affermato dal Capo di Stato maggiore Herzi Halevi.

Oltre ovviamente ad Assad, riparato a Mosca ma non ricevuto da Putin, gli altri attori che vengono definiti come sconfitti sono l'Iran e la Russia, che non sarebbero stati in grado di difendere il regime dall'attacco jihadista.

Tuttavia, soprattutto per la Russia, ci sono alcuni aspetti degni di valutazione, che potrebbero affrancarla dalla figura di sconfitta.

Dall'esame dei fatti emerge che le Forze di Putin, in particolare quelle aeree, non si sono impegnate troppo nel contrastare l'avanzata dei ribelli. La decina di bombardamenti che sono stati condotti non hanno costituito di certo una reazione seria, soprattutto se si considera che le unità nemiche costituivano una seria minaccia anche per le due importantissime basi russe in territorio siriano.

Anche le dichiarazioni del Portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, riguardo il futuro delle due basi, non sono sembrate assolutamente preoccupate, in quanto si è limitato a dire che il problema sarà affrontato con chi salirà al potere in Siria. Un po' poco, se si considera che la base navale di Tartus e quella aerea di Kmeimim sono i due punti di appoggio nel Mediterraneo, per cui hanno una valenza strategica immensa.

Un'ultima considerazione riguarda l'effetto sorpresa che ha caratterizzato l'avanzata dei ribelli. Infatti, sembra veramente strano che i Russi, presenti fisicamente in Siria da molto tempo, non si siano accorti che forze di una certa rilevanza si stavano preparando per un'offensiva in grado di arrivare in pochi giorni a Damasco.

Se poi si considera quale è, al momento, il risultato finale del ribaltone siriano, c'è veramente da chiedersi se la Russia sia veramente una parte sconfitta. Infatti, l'attuale situazione vede un leader jihadista, che vuole costituire un nuovo governo, cercando di mettere d'accordo diversi gruppi islamici, sfruttando il collante della Jihad,

Qualora ci riuscisse, si creerà un nuovo Stato islamico fondamentalista proprio vicino ad una Nazione come Israele, per cui sono altamente probabili tensioni se non addirittura situazioni conflittuali. Pertanto, nonostante quanto dichiarato da Trump, che non considera un affare americano la crisi siriana in realtà, per quanto indirettamente, gli USA saranno comunque coinvolti, per garantire quel supporto a Tel Aviv, che lo stesso Trump ha già confermato. Ciò comporterà l'impiego di forze di Washington nell'area e un flusso costante di rifornimenti, andando ad usurare un dispositivo militare che già risente degli impegni connessi con le attuali aree di crisi, a cominciare da quella Ucraina.

Un quadro che, tutto sommato, non sembra così sfavorevole a Putin che, male che vada, ma è improbabile, potrebbe solo rimetterci le due basi siriane, senza ulteriori contraccolpi.

Ma la propaganda dei media occidentali, compresi quelli italiani, continua a ripetere, come un mantra, che il grande sconfitto è il Leader di Mosca. 

Marcello Bellacicco