Proprio in queste ore l'Egitto sta cercando di trattare con Israele per un ultimo estremo tentativo di fermare il suo attacco a Rafah, che è ormai pronto, con tanti carri Merkawa “ready to move” verso l'ultima roccaforte di Hamas dove, secondo gli Israeliani ci sarebbero ancora 4 battaglioni integri di terroristi.
La proposta della delegazione egiziana, che sarebbe capeggiata addirittura dal Capo dei Servizi, farebbe perno su un ipotetico rilascio di 33 ostaggi detenuti a Gaza i quali, secondo l'Intelligence di Tel Aviv, sarebbero gli ultimi sopravvissuti di cui si ha notizia. In cambio, una breve tregua di poche settimane. Lo sforzo de Il Cairo non è propriamente spinto da motivazioni umanitarie, quanto piuttosto dalla serissima preoccupazione che, in caso di attacco delle IDF - Israel Defence Force, un paio di milioni di profughi palestinesi, attualmente ammassati a Rafah, si riverserebbero nei confinanti territori egiziani, creando problematiche difficilmente risolvibili da una Nazione in crisi come l'Egitto.
Ma le informazioni che trapelano non traspirano ottimismo, perché quest'ultimo atto voluto da Netanyahu in persona, sembra ormai irreversibile, nonostante i seri avvertimenti dell'ONU che, tramite il suo responsabile per gli Affari Umanitari Martin Griffiths, ha dichiarato che un attacco indiscriminato ad un'area densamente popolata come Rafah può essere considerato un crimine di guerra. D'altra parte, nella sua breve storia, compresa quella recente, Israele ha ampiamente dimostrato la sua scarsissima considerazione per le Nazione Unite ed i suoi provvedimenti, che siano moniti o risoluzioni. Per non parlare dell'ultima intimazione della Corte Internazionale di Giustizia de L'Aja la quale, accogliendo la denuncia del Sud Africa e dichiarando plausibile che a Gaza sia in corso un genocidio, ha ordinato a Tel Aviv di “mettere in atto misure cautelari” per impedire che si concretizzi. Inutile dire che Israele, con la colpevole ed ipocrita complicità occidentale e americana soprattutto, ha tirato dritto per la sua strada, continuando le sue operazioni per nulla chirurgiche.
Ed ora potrebbe essere arrivato il momento di Rafah, una città palestinese nella parte meridionale della Striscia di Gaza al confine con l'Egitto, con una popolazione che era di circa 200mila abitanti, ospitati in due campi profughi e che ora, con la fuga di centinaia di migliaia di sfollati da Gaza, è arrivata a quasi due milioni di persone, che sopravvivono molto precariamente e al limite della fame.
Una situazione già problematica di per se stessa, ma che un'azione militare, soprattutto se condotta con la feroce determinazione che sta animando gli Israeliani, potrebbe trasformare rapidamente in un disastro umanitario di dimensioni mai viste. Ma non solo per questo un attacco a Rafah costituirebbe un momento cruciale nella guerra con Hamas, infatti lo sarebbe per la situazione interna di Israele e per i suoi rapporti con gli USA, per il destino del popolo palestinese, per la reazione di tutti i Paesi della regione araba e per l'impatto sulla Comunità internazionale.
Per quanto riguarda Israele, un'operazione con successo contro Rafah significherebbe la distruzione dell'ala militare di Hamas e concluderebbe la guerra con una vittoria perlomeno tattica. Infatti, visto che i Capi del Gruppo terroristico sono al sicuro in Qatar e Turchia, il movimento potrebbe risorgere dalle sue ceneri, soprattutto con l'aiuto di un Iran sempre più coinvolto nello scontro con Israele. Sarebbe solo questione di tempo.
Tuttavia, sotto il profilo della politica interna, questo successo militare darebbe una boccata di ossigeno alla credibilità di governo di Netanyahu. Analogo effetto benefico per la sua leadership, il Premier lo potrebbe ottenere solo se riuscisse a portare a casa gli ostaggi rimasti vivi, ma questo risultato è molto più complicato da realizzare rispetto alla distruzione di Rafah.
La vittoria a Rafah avrebbe invece ben altro effetto nelle relazioni internazionali di Israele, soprattutto con lo sponsor americano che, fino adesso, non è riuscito a dissuadere Tel Aviv dai suoi propositi di ritorsione dura se non addirittura di vendetta.
I suoi rapporti con gli Americani, già provati dall'atteggiamento intransigente e sordo tenuto da Israele in questi mesi, subirebbero un altro duro colpo, perché sono ormai molti giorni che la leadership di Washington continua a ripetere a Netanyahu che l'attacco a Rafah sarebbe un errore con conseguenze disastrose per tutta la Regione e che gli USA non sosterrebbero l'alleato in questa azione. Probabilmente, mai i rapporti tra le due Nazioni sono stati sull'orlo della crisi come ora, soprattutto perché la fiducia verso l'operato di Tel Aviv sta accusando pesanti critiche dall'elettorato americano di area democratica e, addirittura, dallo stesso elettorato ebraico, fortemente combattuto tra il dovere morale di sostenere i fratelli d'oltre oceano e la disapprovazione per quello che sta facendo il loro Capo di Governo.
In tale contesto, neanche la recente visita negli Stati Uniti di Binyamin Gantz, generale e politico israeliano che identifica il perno tra le IDF, il Mossad e la politica è stata sufficiente a placare l'ira americana. Il possibile sostituto di Netanyahu ha cercato di ricucire i rapporti, soprattutto esaltando il ruolo di Israele come tutore degli interessi USA nell'area medio-orientale, ma non è stato sufficiente perché la Casa Bianca ha confermato il suo possibile cambio di strategia verso l'alleato, senza più limitarsi ai soli appelli.
Per quanto riguarda invece gli effetti nella Regione araba, un attacco a Rafah determinerebbe la fuga in Egitto di quasi due milioni di profughi, che non avrebbero più la possibilità di ritornare a Gaza. Tale aspetto sta provocando una diversa valutazione da parte delle Nazioni arabe verso questa guerra, perché si sta affermando il concetto di pulizia etnica. Un'accusa per Israele ancora più grave, in grado di rendere ancora più incandescente la situazione in tutta l'area, esacerbando il tenore delle reazioni, che potrebbero anche prevedere atti di forza contro Israele. D'altra parte, proprio l'Iran, il più dichiarato nemico di Tel Aviv, ha recentemente dimostrato di non aver più problemi ad attaccare direttamente il territorio israeliano.
Da non sottovalutare anche il monito che a febbraio scorso l'Egitto ha lanciato ad Israele, affermando di essere pronto a rinnegare l'accordo di pace, sottoscritto più di quarant'anni fa, in caso di attacco via terra a Rafah. Il problema sarebbe ancora più grande se, come probabile, molte altre Nazioni seguissero questa strada.
La pressione su Netanyahu si sta facendo quindi sempre più forte e lo dimostra il fatto che, proprio ieri sera, il Jerusalem Post ha scritto che il governo israeliano sembra aver proposto ad Hamas una tregua, in cambio del rilascio dei 33 ostaggi. Un successo in questo senso potrebbe allontanare l'ipotesi di attacco a Rafah, ma probabilmente non avrebbe però la forza di cancellarla del tutto, perché la completa distruzione dell'ala militare di Hamas è un obiettivo prioritario per Israele.
Di questo il gruppo terroristico ne è perfettamente cosciente, così come sa che gli ostaggi stanno assumendo sempre più importanza nelle dinamiche della politica interna israeliana. Il dilemma per Hamas sarà quindi quello di decidere se privarsi del loro potenziale salvacondotto o se tenerlo ben stretto ed, eventualmente, cominciare ad utilizzarlo come scudo umano. Sarebbe un ulteriore crimine di guerra, ma ormai si è giunti all'ultimo atto e anche le ultime flebili remore di ordine morale potrebbero cadere da entrambe le parti.