Attualità - 09 marzo 2024, 07:11

La testimonianza di Ambra Laurenzi, mamma e nonna deportate a Ravensbrück (video)

"Raccontare questa storia è un dovere civile, che va oltre il coinvolgimento personale, perché la vita di queste donne non sia stata vana", dice la presidente del Comitato internazionale di Ravensbrück

Nel 1944 la madre e la nonna di Ambra Laurenzi, presidente del Comitato internazionale di Ravensbrück e consigliera Aned, sono state deportate nel più vasto campo nazista femminile, quello di Ravensbrück appunto. Una storia tragica, ma che ha segnato migliaia e migliaia di donne.

L'INTERVISTA

 

Mia mamma e mia nonna sono state deportate perché famigliari di un partigiano, mio zio, il fratello di mia madre -racconta Ambra Laurenzi- La sera in cui sono state arrestate in casa si stava svolgendo una riunione clandestina, poi è arrivata la Gestapo, avvisata, come spesso accadeva, da una delazione, una spiata. Mia mamma era una studentessa, aveva diciassette anni, ha aperto lei la porta di casa e il militare, con un mitra in mano, le ha intimato in tedesco ‘raus’ (fuori). Lei è uscita, mia nonna l’ha seguita e sono state portate via entrambe. Prima sono state rinchiuse nel carcere di La Spezia, poi sono state trasferite in quello di Genova e infine nel campo di smistamento di Bolzano. Da lì, nell’ottobre del 1944, sono state deportate a Ravensbrück, dove hanno lavorato alla Siemens, una fabbrica elettromeccanica”.

La deportazione femminile ha avuto delle peculiarità, che l’ha resa quasi più drammatica, anche per i risvolti psicologici subiti dalle sopravvissute, una volta rientrare: “La maggior parte delle donne che sono ritornate, non hanno parlato delle loro storie. In molti casi chi le ha riaccolte non ha tenuto conto di quello che hanno sofferto, quasi non credevano loro, e si insinuava che avessero avuto un comportamento ‘contrario alla morale’. La società, in generale, ma anche le famiglie hanno avuto difficoltà ad accettare queste donne, un po’ come è successo alle partigiane. A causa di queste accuse e offese, la maggior parte di loro ha scelto di non parlare.

Anche mia madre per molto tempo, fino agli anni ’90, non ha raccontato in pubblico la propria esperienza”.

Ambra Laurenzi, ricorda la storia della sua famiglia e la racconta ai ragazzi delle scuole, perché sia da monito: “Sento il dovere di raccontare questa storia al di là del mio coinvolgimento famigliare. È come un dovere civile, perché la vita di queste donne non sia stata vana.

Bisogna riflettere su questi avvenimenti, come Aned e come Comitato ci sforziamo di ricordare le cause che hanno portato alla deportazione, perché si possano cogliere i segnali di un ripresentarsi della storia. Spero che i giovani abbiano la sensibilità di percepire questi segnali perché la storia, come diceva Primo Levi, è destinata a ripetersi se non la si conosce”.